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ARTICOLO del giornalista - drammaturgo Rosso di San Secondo sul
"GIORNALE D’ITALIA" GIOVEDI’ 6 APRILE 1950

SEZZE: PAESE DELLA PASSIONE

Vorrei che in tutti i Comuni della Repubblica ci fosse, presso il municipio, un impiegato simile a quello che alcuni anni fa, (non vi è detto che non vi sia ancora) a Sezze interpretava il personaggio di Gesù nella rappresentazione della Passione.  Il più umile lavoro quotidiano(scrive cotidiano) verrebbe naturalmente spiritualizzato.

 

E’ vero,si, che la chioma coltivata alla nazarena e la barba divisa sul mento non formano da se stesse garanzia di alto sentire;ma è più vero che quando chioma e barba sono , come in voto, legate al pensiero costante della divina persona che si vuol raffigurare, diventano, nella vita giornaliera, un richiamo continuo alla rettitudine, alla probità, alla fede.

S’immagini, poi, che cosa possa essere la particolare psicologia di un uomo, la cui immagine ricordi a lui stesso quella di Cristo!

S’immagini, poi, che cosa possa essere un paese in cui giornalmente si muovono, con le figure ben caratterizzate, tutti i personaggi della divina tragedia!

Ma no, immaginarsi un tal paese non è possibile, perché in qualunque altro, la verità biblica inserita così al vivo, nel traffico moderno , subirebbe, con i contrasti, l’irriverenza delle deformazioni. Mentre a Sezze, tra le cui stradette tortuose a stento e raramente passa una macchina, vi è tutto un clima popolare capace di soffocare ogni principio di critica. Fede e sentimento vergine dinanzi al martirio del Redentore!

Non c’ero mai stato, e vi arrivai, dopo aver percorso la bonifica dell’Agro. Squadre d’operai, a piedi, in bicicletta. Seminati interminabili verdi di grano nuovo, alternati con zone arate di fresco, attendenti altre semine. Pingue bestiame intorno alle case coloniche :odore sano di stallatico, di terra, d’erba, di primavera.

La montagna, che si prolunga sino al Circeo chiude, d’un tratto, bruscamente come un muro la pianura. Ed è roccia impervia. Sezze sta su questa roccia. Quand’ecco neri tronchi d’ulivo duramente contorti. V’è qualcosa di solenne e disperato insieme a queste piante, che abbarbicate al sasso con uno sforzo secolare, protendono le braccia verso la pianura, quasi a voler narrare il senso di una pena eterna.

Se qualcuno ci sussurrasse all’orecchio che i piedi carnali di Cristo uomo si sono stracciati sulle pietre di quest’erta, come sulla via del Calvario, dovremmo compiere uno sforzo mentale al momento per localizzare il sacrificio nel suo veritiero luogo di Palestina. Nulla, in questo paesaggio, esclude la realtà presente della Passione. Non lo incontrammo, or ora, Gesù sulla via Appia? Non ripetemmo , or ora, “ Quo Vadis, Domine?”

Alla nostra commozione vaga, succede lo sgomento.

Le donne di Sezze, da tempo immemorabile, la notte del Venerdì Santo, con torce accese, vanno in folla raccolta e litaniante, a deporlo nel sepolcro, il corpo esamine Di cristo. Ad ogni cantone arde un falò  con il fumo delle fiamme. Non è più un paese sulla roccia degli ulivi, è un rogo ardente. Sulle pietre si stracciano i piedi nudi, l’angoscia religiosa brucia i petti, gli occhi versano sincere lacrime (scrive Lagrime) . Migliaia di fiamme, migliaia di cuori per le stradette impervie, tutta la notte, fino alla stanchezza, fino alla spossatezza. Quando il Corpo Divino è deposto l’alba sulla petraia desertica trova un silenzio mortale.

Ed ecco si tratta d’imbrigliare e costringere in forma d’arte il trasporto spontaneo di questa popolazione verso la rappresentazione del martirio di Cristo.

E’ già notte… Le maestranze sono già tornate a casa dalla pianura; i negozi si sono chiusi; i contadini sono giunti dai poderi della valle.

L’odore di questa umanità è quello della terra. La pioggerella lenta, che cade come brina primaverile, accentua quest’odore. Tutto è vecchio qui, tutto terroso ed annoso. Il paese costretto nientemeno che su muraglia dell’epoca ciclopica ha visto secoli prima di Roma. Misteriose gallerie trapassano il sottosuolo, misteriose sorgenti allagano bacini sotterranei. Le casupole, le case, le chiese hanno perduto il carattere del sovrapposto:sembrano tutto uno con la roccia e con lo sterro.

Interroghiamo le crepe, chiamiamo nei crepacci, svegliamo il senso terroso di questi uomini.

Ecco Pietro, Paolo, Giovanni. Ecco il romano Pilato, le guardie di Roma. Ecco il vuoto Caifa, ecco i folli sacerdoti del Tempio. Persone e immagini si animano nella composta, estatica esaltazione del popolo.

Siamo in chiesa, ora, una chiesa ampia, anch’essa odora d’acqua e terra. Terra che via ha trasportato dentro la folla di operai e contadini venuti dalla campagna. Penso che nessuno sia rimasto a casa, perché le mura capiscono appena. Non un bisbiglio (scrive pispiglio) non un fiato. Buio e solo uno sprazzo di riflettore. Cristo si avanza dall’ombra. E’ l’ombra dell’ultima sera quella della preghiera nell’orto. Ha lascito i tre apostoli e si apparta. Giunge, recato dall’Angelo, l’amaro calice…

Quanta nobiltà, quanta realtà trascendente, quali sguardi, quali movenze! La sostanza terrosa si è spiritualizzata e s’incendia di purissimo ardore. La sacra tragedia rivissuta con intensità dolorante, spasima d’una vita terribilmente silenziosa ai piedi dell’altare di Sezze come se avvenisse ora.

Non è che una prov. Ma qui la prova non è come in teatro. Qui significa soffrirne pregare , elevarsi con tutte le forze del cuore per non commettere sacrilegio.

L’interno travaglio degli attori , il loro allucinato rapimento, comunica alla folla assiepata lo stupor sacro. Essa che in modo vario disposta , dovrà prendere parte alla grande rappresentazione del Venerdì santo, ora, finita la prova, esce pesantemente dalla chiesa e si spande per le viuzze, con u n sordo scalpiccio, senza parole.

Poco dopo tutto è serrato.

La roccia dorme.

Rosso di San Secondo

 
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